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Marcello Lattari

 

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Bruno Orlandoni: " AFRICA in FORME" - Trasformazioni del corpo femminile nella scultura africana - nota sulla scelta delle opere - riduzione dal catalogo della mostra - Asti - maggio/agosto 2008

 

 

 

 

Indice editoriale

 

NOTA SULLA SCELTA DELLE OPERE

(riduzione dal catalogo della mostra)

a cura di 

Bruno Orlandoni

 

   La scelta delle opere da presentare in mostra è stata vincolata da due condizioni fondamentali. La prima era insita nell’idea che stava alla base dell’operazione: presentare al pubblico un esteso repertorio di opere africane di qualità, appartenenti a collezioni private, inedite. La seconda era legata al tema proposto: la donna. Questo aveva la funzione principale di favorire una drastica riduzione del campo di scelta, facilitando l’operazione. Il serbatoio in cui operare, costituito da migliaia di opere dei tipi e formati più diversi, si riduceva così di quasi tre quarti. La scelta di escludere qualsiasi accessorio relativo alla donna (abiti, oggetti d’uso femminili, ecc.) e di escludere ogni riferimento di tipo sociologico al problema, riduceva ulteriormente il campo, rendendo l’operazione più semplice, praticabile nei tempi proposti dalla committenza. Il tema “donna” veniva così progressivamente mutato nel tema “corpo femminile”, nell’intenzione di evitare ogni tentazione di lettura politica e di sottolineare, invece, che il soggetto è affrontato esclusivamente sotto il profilo formale, in una dimensione tutta interna al fatto artistico e alle sue pertinenze, siano esse pertinenze antropologiche o di sociologia dell’arte oppure problematiche stilistiche e linguistiche.

   Un terzo vincolo, infine, era costituito dall’ambiente in cui esporre le opere. Lo straordinario prestigio formale del complesso monumentale di San Pietro ad Asti costituiva a un tempo un formidabile stimolo e un preoccupante onere. Il problema era quello di dialogare con la qualità dell’ambiente senza lederla o cercando di lederla nella minor misura possibile. L’ambiente suggeriva comunque un tetto quantitativo alle opere da esporre che si decideva di fissare attorno ai 200 pezzi circa, il 70% dei quali di piccolo formato.

   Dati questi parametri iniziali, l’operazione di scelta si è articolata secondo alcune direttrici fondamentali.

   Il modo più ovvio per impostare la definizione formale dell’oggetto della mostra è parso quello di descriverlo in opposizione ad altri, più o meno simili, in modo da farne emergere le caratteristiche, i dettagli, le specificità. Così il modo più immediato per aprire il discorso definendo la forma artistica del corpo femminile nell’arte africana è parso quello di metterla in opposizione alla forma artistica del corpo maschile.

COPPIE. Nel caso della scultura africana, l’operazione è favorita dal fatto che praticamente presso ogni etnia, esiste la tipologia specifica della coppia, sia essa intagliata in legno o in avorio, o modellata in terracotta, oppure fusa in bronzo o battuta in ferro. Nella resa specifica della dicotomia maschio/femmina, l’arte africana si muove secondo i ritmi più diversi. Di fronte a quella articolata serie di varianti, che anatomisti e specialisti di diversi settori hanno catalogato come “caratteri sessuali primari” e “secondari” troviamo le soluzioni più estreme e tutte le loro varianti intermedie. Corpi identici, in cui l’unica varianza è ridotta alla presenza di un’appendice – spesso minuscola – tra le gambe maschili, e di un forellino o di un taglio tra quelle femminili (con o senza la presenza di due pallini sul petto in veste di seni), come nelle terrecotte mambila (n. 2 e 4) o dakakari (n. 6), nelle figurette zande (n. 8), nei bronzetti senufo (n. 9). In alcuni casi – come proprio nei bronzetti senufo - l’unica differenza anatomica (la presenza dei seni femminili) è confermata dalla presenza di oggetti portati come attributi: così il vaso sarà attributo femminile in molte regioni dell’arte africana, mentre ai maschi – guerrieri e cacciatori – sono affidate armi (asce, coltelli) o bastoni di comando. A volte a queste differenze minime si sommano delle varianti tecniche di difficile spiegazione. Nelle figure lengola (n. 1), per esempio, le donne hanno le braccia innestate all’esterno delle spalle, gli uomini le hanno al di sopra. All’estremo opposto di queste rese minimaliste, troviamo esempi in cui l’artista si lancia nella rappresentazione dei più sfumati caratteri sessuali secondari, come nel caso delle figure Dan (n. 17), o ancor più in quello dei deblé Senufo (n. 14) in cui sono rese in maniera efficace le differenze tra altezza e rotondità delle natiche, squadratura delle spalle, verticalità della colonna vertebrale e presenza o meno di una leggera lordosi.

   Spesso, gli esseri raffigurati sono soprannaturali e si pongono come veri e propri archetipi nei confronti degli umani. In questo senso, il fatto che spesso la differenziazione non tenga conto dei volti – rigorosamente uguali – come nel caso dei guardiani di villaggio lengola (n. 1), dei “feticcini” perlinati bamoun (n.5) o degli antenati gurunsi (n. 10) sembra assumere significati addirittura programmatici. Quasi a voler significare che non sono le differenze di tratti somatici a determinare la sostanza della differenza tra maschio e femmina. Così, nel poggiatesta luba o prebembe (n. 11) la quasi totale identità delle due figurette è mitigata solo da piccoli seni nella figura femminile e ribadita da un’unica scarificazione sul fianco, che cita in maniera abbastanza esplicita l’organo sessuale.

ILCORPO AMBIGUO: BIFRONTI, FIGURE GIANIFORMI, ERMAFRODITI. Sia che le figure risultino differenziate con chiarezza, sia che le varianti attengano al limitatissimo campo del segnale, è evidente che l’artista africano nei confronti della rappresentazione del corpo umano assume spesso un atteggiamento astratto. Ciò attiene al fatto che al di là delle identità personali, uomini e donne, maschi e femmine, vengono spesso assunti nella loro natura universale, simbolica, come personificazioni di principi generali reciprocamente connessi. Ciò dà luogo in molti casi a raffigurazioni molto particolari: i bifronti.

   I casi più comuni si trovano nella scultura del Burkina Faso presso diverse etnie e in particolare presso i Lobi, e in Congo soprattutto presso le popolazioni del sudest, in particolare tra gli Hemba. Presso gli Hemba, anzi, gli elementi decorativi bicefali a testa doppia, maschile (barbuta) su un lato e femminile sul lato opposto, sono presenti su una grandissima varietà di attrezzi, arnesi, oggetti: dai bastoni processionali, ai poggiatesta, agli oggetti magici.

   Spesso la figura bifronte è risolta nella maniera più immediata tramite l’adesione schiena a schiena di due figure umane, stanti, quasi complete, come nei casi della kabeja makua hemba (n. 21), del grande palo lobi (n. 33), o del feticcio teke (n. 25). A volte le due figure possono essere inginocchiate o accosciate (n. 22). Più raramente le combinazioni possono essere più particolari, realizzate tramite l’accostamento di due metà, sinistra/destra maschio/femmina come in alcune sculture lobi (n. 28, 29). Tra i Lobi a volte si trovano intrecci anche a tre figure, di notevole complessità (n. 37). In altri casi ancora, più semplici, più che figure bifronti troviamo delle figure che sarebbe più corretto definire semplicemente bicefale consistenti in un corpo, maschile o femminile, su cui vengono innestate due teste fianco a fianco, come nell’arpa mangbetu (n. 154), oppure davanti e dietro. Tra i Lega (n. 44, 47, 48, 49, 50) le teste si moltiplicano e su un’unica testa possono apparire più nasi e più bocche (n. 41, 43) in un gioco di moltiplicazione che ritroviamo nell’arte orientale o nelle droleries dell’arte medievale. E ancora l’arte orientale torna alla memoria di fronte alla rara soluzione quadrifronte della donna con coppa luba (n. 52).

   In alcuni casi l’ambiguità si combina in una figura unica dando luogo a veri e propri ermafroditi. Seppure rari, sono comunque più diffusi nell’arte africana che presso altre culture figurative. Frequenti, poi, i casi in cui l’ambiguità si risolve all’interno di un’unica figura, nell’assoluta impossibilità di definire il sesso. E’ il caso di quasi tutte le teste biery dei Fang (n. 39, 40) come di molte figure mumuye. Quella che esponiamo (n. 64) può forse ricondursi ad un genere femminile perchè in ambito mumuye sono solo le donne a deformarsi i lobi degli orecchi. Spesso questa ambiguità raggiunge il culmine nella rappresentazione dei volti. Prescindendo dalla presenza di segni distintivi utili a definire il genere, si deve osservare come spesso volto maschile e volto femminile siano raffigurati secondo canoni pressoché identici. Molte figure tabwa, (n. 61, 62) pur di notevole raffinatezza compositiva, sono difficilmente qualificabili sotto il profilo sessuale. Così le ricerche più recenti affermano che le maschere bianche del Gabon, considerate “femminili” dalla critica occidentale, in realtà possono essere anche maschili (n. 73 – 76). Anche la presenza o meno della barba, che spesso è una delle forme di varianza più immediata ai nostri occhi, non sempre è sufficiente a definire sessualmente le entità rappresentate dagli artisti. Così esponiamo alcune figure femminili in cui la presenza di labret o ornamenti labiali (n. 67, 275) di vario genere e tipo o di vere e proprie barbe finte (n. 68, 70), pone problemi di interpretazione che spesso possono nascondere autentici risvolti “politici”, relativi alle funzioni e ai ruoli di potere esercitati dai personaggi rappresentati.

   Ambiguo anche il problema della resa delle ernie ombelicali, presenti con enorme frequenza nelle figure umane africane, e di solito rappresentate in maniera un poco più accentuata (ma non sempre) nelle figure femminili, fino a diventare una sorta di contrappeso visivo dei seni (n. 84 e foto di copertina).

IL CORPO COME TERRITORIO. L’arte spesso è stata intesa e usata anche come strumento privilegiato di visualizzazione del simbolico. Anche la rappresentazione di ciò che ci appare come più naturale, il corpo umano, può assumere valori e significati meno ovvi e naturalistici di quanto una prima osservazione non sembrerebbe suggerire. Così presso alcune culture – nella fattispecie fra i Luba – il corpo, e in particolare spesso proprio quello femminile, in quanto corpo dell’antenata progenitrice, diventa una complessa metafora del territorio antropizzato (n. 114, 118, 120, 122). Più spesso ancora il corpo viene annesso agli oggetti d’uso più diversi, dai pettini (n. 45, 46, 62, 153, 152, 237), agli strumenti musicali (n. 97, 154, 263), ai cucchiai (n. 86, 93) e ai contenitori (n. 95, 219, 254), ai sedili (n. 99, 223, 259, 262), in un’operazione che a prima vista potrebbe apparire una disumanizzante oggettualizzazione del corpo umano, e che invece, spesso, è l’operazione opposta, di umanizzazione dell’oggetto d’uso che in questo modo viene annesso alla dimensione familiare del quotidiano.

DECORAZIONI E ACCONCIATURE. Come il territorio antropizzandosi si trasforma attraverso l’intervento della cultura sulla natura, così il corpo umano – spesso proprio quello femminile più di quello maschile – crescendo, cioè entrando nella società degli adulti, viene trasformato dalla cultura attraverso l’imposizione di un’ampia serie di segni. La scultura africana registra in maniera efficace la complessa trama di segni a rilievo – scarificazioni e cheloidi – di cui il corpo si riveste nel corso dei riti di iniziazione e di passaggio di età. Anche in questo caso funzioni (e forme) e significati mutano nei luoghi e nel tempo. Le complesse trame delle scarificazioni che decorano le sculture lulua (n. 134, 135, 136, 137) erano già scomparse dai corpi di uomini e donne Lulua quando questi vennero raggiunti dai primi occidentali, poco dopo la metà dell’Ottocento. Lo stesso per i Mangbetu che conservavano solo più l’uso di deformare i crani dei neonati allungandoli (n. 154, 155). Ancora oggi invece, presso alcuni gruppi – per esempio gli Yoruba – la forma della scarificazione veicola espliciti significati di appartenenza, tribale, clanica, familiare, di classe, di età. Presso altri ha valenza esclusivamente estetica: presso gli Hemba, per esempio, sembra che la pratica della scarificazione reciproca tra maschio e femmina rientri nell’ambito di un esplicito gioco erotico di coppia. Anche segni di dolore e di malattia, quanto mai frequenti in Africa, possono trasformarsi in trame decorative. Così i chiodi che costellano corpi e volti di molte sculture songe (n. 80, 264) non rappresentano cheloidi, ma le tracce delle pustole del vaiolo.

   Al di là della loro registrazione nella scultura, non bisogna poi dimenticare come la stessa pratica delle decorazioni a cheloidi sia in fondo una vera e propria forma di scultura sul corpo che riconferma – se ce ne fosse bisogno – quanto il talento artistico africano sia prima di tutto talento scultoreo, plastico.

   Accanto alle scarificazioni si notano le acconciature, di straordinaria complessità e bellezza. La scultura le rende con raffinata precisione, spesso senza inventare nulla, solo riproducendo quelle che sono già di per sé straordinarie sculture o bassorilievi. E così ecco un apparire e moltiplicarsi di trecce e treccine (n. 212, 276), chignon (n. 145, 172), finte corna allusive ad animali scelti come simboli di potere (n. 68, 185), autentici cimieri realizzati con capelli riportati o complesse intelaiature di fango e stecchi (n. 138, 150), fino ad arrivare al kaposi, l’acconciatura crociata portata da uomini e donne Hemba (n. 143, 177) che è un autentico cosmogramma simboleggiante le direzioni dello spazio e del mondo.

GESTI E POSIZIONI. Un ulteriore capitolo che si è ritenuto opportuno documentare è quello della varietà di gesti registrati. Capitolo relativamente limitato. L’arte africana è da un lato fortemente convenzionale, da un altro lato è tendenzialmente espositiva e affermativa e molto poco narrativa. Le posizioni documentate, i gesti, gli atteggiamenti, sono quindi pochi. Si può affermare che un buon 70% delle sculture africane note rappresenta la figura umana nuda, in piedi, di solito l’uomo con le mani sul ventre, la donna con le mani sul seno. Un altro 25% di sculture rappresenta uomini e donne seduti in trono, oppure accovacciati o inginocchiati (in quest’ultimo caso soprattutto le donne). Nel rimanente 5% (ma forse anche meno) si concentrano tutte le altre possibilità di gesto o posizione: figure con le mani sul capo (n. 245, 246) o portate al mento (n. 248), figure sedute a terra (n. 219), figure equestri. Rarissime le figure voltate (n. 267) o più o meno ruotate, perché l’arte africana rifugge dalle asimmetrie; e altrettanto rare le vere e proprie “scene” (n. 204, 270). Quasi unici i pezzi che documentano altre situazioni: come il bracciale a forma di ballerina che compie l’arco dorsale (n. 268), che in Piemonte non potrà non riportare alla memoria quello che è uno dei gioielli del Museo Egizio di Torino: l’ostrakon dipinto con una ballerina raffigurata nella stessa posizione.

IL CORPO ASTRATTO, IL CORPO CONCRETO. Intersecando questi passaggi più o meno articolati, la scelta si è sviluppata poi nell’intenzione di presentare il maggior numero possibile di varianti formali del tema primario: la donna; dalle soluzioni più astratte dell’arte chamba (n. 107), dogon (n. 102), bamana (n. 94), metoko (n. 108), a quelle più espressioniste proposte dalla scultura songe (n. 156-162), bangwa (n. 222), kuyu (n. 307), a quelle di quel naturalismo idealizzato, che potremmo quasi definire classico in ambito africano, della produzione yoruba (n. 199-203), kongo (n. 280-285), luba (n. 180), baule (n. 192).

MATERNITA’. Conclusione per molti versi necessaria, vista la frequenza del soggetto, una rassegna di maternità che, dato il loro palese significato anche politico – la madre in Africa è spesso colei attraverso cui passa il potere – possiamo dire stare all’insieme dell’arte africana come le Madonne con bambino sono state all’insieme dell’arte cristiana europea. A proposito delle maternità si potranno fare alcune osservazioni conclusive. La prima è che i bambini, in quasi tutte le maternità, non sono qualificabili sotto il profilo sessuale. Sono asessuati. Il bambino non è né maschio né femmina, né uomo, né donna. In Africa uomini o donne non si nasce, ma si diventa; e si diventa tali solo con i riti di passaggio e di iniziazione. La seconda è che l’assoluta ieraticità, la compostezza, la maestà che caratterizza le figure adulte, nelle figure dei bambini scompare e lascia posto ad una grande varietà di posizioni e di piccoli gesti. Ciò, da un lato, sembra significare che il diventare adulto obbliga l’individuo a selezionare, scegliere, limitare i gesti attraverso cui presentarsi e proporsi al prossimo. Da un altro lato è testimonianza del fatto che la limitatezza di gesti e posizioni dell’arte africana non è la conseguenza di limitate capacità espressive. Al contrario è un’esplicita scelta di linguaggio: un vero e proprio canone comunicativo come nel caso dei kouroi greci, o dei faraoni egiziani, racchiusi nei margini ristretti di una loro gestualità misurata e controllata.

   Questo il percorso della mostra. I poco più di duecento oggetti esposti sono la selezione effettuata – come si è detto – all’interno di un serbatoio molto più ampio. A parte qualche presenza forzata dall’importanza concettuale degli oggetti, i parametri fondamentali che hanno direzionato le scelte sono stati la qualità formale delle opere e in alcuni casi la loro palese importanza storica. Nella mostra si troveranno alcune opere attribuibili con buon margine di sicurezza a scultori e atelier già individuati e studiati dagli specialisti del settore o altri capolavori riconducibili ad ambiti di una certa rarità. Così si può andare dagli ibeji yoruba attribuibili ai vari Onamosun di Iperu, Adugbologe, Bangboye, Esubiji (nn. 199-203), alla figura di antenato luba – che esponiamo perché raffigurante quasi di certo un ermafrodito, oltre che per la qualità – del cosiddetto “maestro dei Kunda” (n. 66), alla maschera Ivili riconducibile ad un atelier operante prima del 1867 in Gabon (n. 73), alle due opere attribuibili a quello che è di certo il maggior artista kuyu fin qui documentato (nn. 16 e 307), allo sgabello e al bastone di comando attribuibili ad uno dei più raffinati atelier operanti in un’indefinita area di confluenza tra Songe e Luba (nn. 126, 262), alla figura di antenata attribuibile ad un altro raffinatissimo atelier songe (n. 160). Per la loro rarità si possono segnalare l’antenata buyu (n. 70), il portafrecce sankadi (n. 234), la donna seduta a terra idoma (n. 219), il bifronte teke (n. 25), la sedia a cariatidi e schienale di area luba (n. 223-224), tutti oggetti riconducibili a tipi di cui si conoscono pochissimi esemplari. Sotto il profilo della pura qualità artistica vanno segnalate tra le altre la maternità tumbwe (n. 271), la figura mumuye (n. 64), la coppa koro (n. 90), le antenate hemba (nn. 175 e 185) e l’altra antenata luba o hemba con coppa e ascia sulle spalle (n. 180), la coppia di deblé senufo (n. 14), la grande figura dogon (n. 250), le due figure femminili baule (n. 173 e 192). A conferma del fatto che la qualità artistica poi non è necessariamente misurabile a metri o a pesi, invitiamo ad osservare con attenzione gli oggetti di piccolo formato. Spesso la loro qualità e monumentalità non sono inferiori a quelle degli oggetti maggiori tanto che, onde non trarre in inganno, si è deciso di inserire nelle sintetiche didascalie del catalogo anche l’indicazione della misura, a volte veramente fuorviante perché nasconde in pochi centimetri oggetti di qualità superiore.

Asti, maggio/agosto 2008

Bruno Orlandoni

 

 

 

 

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